Le riflessioni di Antonio Vigilante, prof di filosofia, dopo un dialogo con i suoi studenti iniziato con una domanda: com’è studiare questa materia?

I momenti più belli dell’anno scolastico sono i primi giorni di giugno, quando il programma è ormai finito e, liberi dall’incombenza delle lezioni, è possibile parlare seduti sull’erba, godendosi il sole e la compagnia. In uno di questi momenti ho provato a fare un bilancio dell’anno con gli studenti di quarta. Una classe che ho preso quest’anno, e con la quale c’è stato qualche problema iniziale dovuto alla sensibile differenza di metodo tra me ed il docente dell’anno precedente. In quest’anno scolastico abbiamo attraversato più di mille anni di filosofia, dalle certezze del pensiero medievale fino alle inquietudini kantiane. Come è andata, dunque?

Dopo qualche complimento di rito viene fuori un aggettivo che, nonostante la bella giornata, mi gela: deprimente. Studiare filosofia è stato deprimente. Poiché so che spesso i ragazzi danno alle parole un significato un po’ diverso da quello corrente, chiedo spiegazioni. E viene fuori che la filosofia è deprimente perché toglie ogni certezza. Non abbiamo assistito solo al crollo della visione del mondo medioevale. Non abbiamo seguito solo Cartesio nel suo dubbio metodico. Ci siamo interrogati anche sulla validità dello stesso cogito cartesiano. Quanto è solida la certezza di noi stessi? Chi siamo davvero? Hume ci ha gettato addosso un bel po’ di domande; con Kant siamo finiti ad interrogarci sulla realtà di ciò che vediamo.

E ci siamo fatti poi mille domande morali.

È possibile, ad esempio, dimostrare che è sbagliato uccidere qualcuno? Certo, lo sappiamo tutti che è sbagliato, ma come dimostrarlo? La maggior parte dei miei studenti hanno attraversato il dubbio. Molti di loro si dichiarano atei o agnostici. Ma qui c’è qualcosa di diverso: di più radicale. Deprimente vuol dire, mi pare di capire, destabilizzante. Può essere, naturalmente, che sia una mia interpretazione autoassolutoria (terribile pensare di aver passato un anno a deprimere delle persone); se così non fosse, significherebbe che ho fatto più o meno il mio lavoro. Perché la filosofia, per come la vedo io, è soprattutto questo. Un acido gettato sulle cose allo scopo di essenzializzarle, metterle alla prova, rivelarne la natura (o l’assenza di natura).

Una attività corrosiva nei confronti di fedi, ideologie, convinzioni, che si esercita anche verso le stesse filosofie.

So che per molti la filosofia non è questo, o non è solo questo. Altri amano la pars construens: il sistema, la solidità rassicurante di una interpretazione del mondo, la certezza di appartenere a una scuola. Mi pare anzi che sia questa la percezione dominante della filosofia. Quella che dà origine a figure come il consulente filosofico, uno che ti aiuta a orientarti nella tua stessa vita, e che certo non può essere una persona deprimente, né destabilizzante. Resto convinto tuttavia che la filosofia sia, nella sua essenza, questa azione di spietata verifica, più che di edificazione della verità.

Mi piacerebbe poter dire che questa attività è anche importante per la nostra democrazia – che esige la critica più di ogni altra cosa -, ma cadrei in due errori, uno pedagogico e uno filosofico: considerare valido ciò che si fa a scuola non per sé, ma per i risultati che porterà in futuro per il singolo o per la collettività (mentre la scuola deve essere fondata sulla sensatezza di ciò che si fa qui ed ora) e cercare una giustificazione fondata sull’utile, che è una categoria che la filosofia sottopone a critica non diversamente da ogni altro fenomeno (compresa la democrazia e la società).

La filosofia è deprimente anche in un altro senso, più aderente al significato corrente del termine. Un filosofo che amo molto, Giuseppe Rensi, scrisse un libro intitolato Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte. Ogni filosofia, in realtà, è un confronto con queste cose. Una discesa nel negativo, che può essere più o meno radicale, compiuta con la fune di sicurezza di qualche fede o senza alcuna garanzia di uscirne. Una attività imbarazzante. Siamo nella società della positività: della giovinezza, dei sorrisi, della gioia di vivere ribadita in ogni immagine televisiva, in ogni post su Instagram.

Siamo nella società che ha bandito la vecchiaia e la morte, e per la quale il dolore è un inconveniente da cancellare con adeguate dosi di anestesia.

Un’aula scolastica in cui si discuta di morte, di male, di sofferenza diventa un posto strano. Una situazione umana sempre più rara, in qualsiasi contesto sociale. Una situazione deprimente, destabilizzante, forse. Una situazione nella quale, sospese verità rivelate, fedi, certezze e ideologie, è possibile provare qui ed ora ad essere veri.