Come e perché pensare il futuro: qualche esercizio di speranza da mettere in pratica

Tendiamo a considerare il futuro e le previsioni un terreno minato: lo lasciamo alla scienza salvo poi abbandonarci alla superstizione. La parola chiave per costruire un buon rapporto col futuro è “speranza”.

Quello di speranza è un concetto antico, tanto importante da corrispondere a una dea, Elpis per i greci e Spes (“Ultima dea”) per i latini. La nostra “speranza” viene direttamente da “spes”, che viene a sua volta dal sanscrito spa-, tendere verso una meta.

La speranza è, con fede e carità, una virtù cristiana, e per questo tenuta in buon conto: popolarmente è però anche irrisa e presa in giro (“La speranza è cattivo denaro”, “Chi vive di speranza, disperato muore”, “Chi vive di speranza, satolla lo spirito e affama la panza”). D’altra parte, la speranza è l’ultimo dei mali a rimanere in fondo al vaso di Pandora: da una parte consola e aiuta le persone a sopportare i mali, dall’altra rischia di essere un male di per sé.

Questa dicotomia arriva fino ai giorni nostri: Greta Thunberg ne parla in un suo famoso discorso dicendo di non volere la speranza (cioè le bugie dei governi), ma parlando poi a Milano agli attivisti corregge il tiro: “La speranza sono le persone che vogliono cambiare le cose”.

Riecheggia così un motto di Sant’Agostino: “La speranza ha due figli: lo sdegno e il coraggio”.

La speranza può essere vista (ed effettivamente viene vista) in due maniere: come un sentimento passivo, finalizzato all’accettazione e alla sopportazione di un futuro incerto; o come un’azione consapevole, che fa da sprone per degli obiettivi personali o sociali, un movimento che “tende verso una meta”. È questo secondo tipo di speranza a generare sdegno e coraggio, a poter essere contagioso, e a diventare così importante da essere entrato anche nel dibattito politico di questi anni (“Hope”, speranza, è la parola chiave della fortunata campagna presidenziale di Barack Obama).

In qualche modo, la speranza è una fortuna “attiva”, figlia della consapevolezza, che si fonda su valori personali o condivisi, che può essere costruita in gruppo. 

Più di un gioco si ispira alla speranza: qui mi interessa citarne due. Il primo è “Il gioco della speranza” del bolognese Mitelli (1699), un gioco di fortuna “passiva”, di puro azzardo, in cui si vince e si perde in base a un tiro di dadi: è solo uno dei tanti giochi che si diffondono tra Seicento e Settecento, e che fanno interessare alla statistica filosofi e matematici prima italiani e poi francesi (la lingua francese oltre a espoir registra anche espérance, che viene usato anche nel senso specifico di “valore atteso”). Il secondo gioco “della speranza” viene invece pubblicato esattamente cento anni dopo: è di Alexander Gluck (1799) e conta 36 carte che vengono disposte in ordine a fare un tabellone su cui ci si sposta con i dadi come nel gioco dell’oca e che dà vita a un mazzo di carte (Le Normand) usato per predire il futuro. 

Il futuro passa nel giro di cento anni dall’ambito dell’azzardo a quello della cartomanzia: siamo sempre nei territori della superstizione, ma siamo passati dalla fortuna alla curiosità, dai territori del lancio di dadi a quelli della storia.

Quando inizia il futuro?

  • Il nostro primo esercizio serve a compiere un piccolo passaggio: sentirsi emotivamente vicini al nostro “sé futuro”, senza paura. Come esseri umani, infatti, tendiamo a essere molto empatici nei confronti del nostro passato, ma ci vediamo come degli estranei quando ci confrontiamo con i nostri sé futuri (e infatti è difficile convincere le persone a sacrificare qualcosa del presente per un futuro migliore: è un regalo che facciamo a un estraneo).
  • Chiediamo al nostro gruppo: “Pensiamo al futuro come a un momento in cui molte cose delle nostre vite saranno diverse da come sono oggi. Tra quanto inizia quel futuro?”
  • Scriviamo tutti su un foglietto una data o un lasso di tempo per noi significativo, quindi mettiamoci in ordine di futuro, da chi ha scelto un intervallo di tempo brevissimo a chi ha scelto il più lungo.
  • Spieghiamo perché abbiamo scelto quell’intervallo di tempo, e diciamo in cosa ci immaginiamo diverso il futuro.
  • Il futuro sarà un insieme di predizioni positive e negative, di speranze e di angosce.
  • Proviamo a metterle insieme e a chiederci cosa possiamo fare.
  • Riprendo il gioco da Jane McGonigal, Immagina (Roi Edizioni, traduzione di Rossella Monaco, 2022).

Una lista di obiettivi

  • Si parla molto in questi anni di “positive thinking”, di pensiero positivo a sostegno delle proprie azioni e del proprio stare al mondo: pensare positivo non è un imperativo, ma un approccio all’azione che parte da ciò che vogliamo si realizzi.
  • Riprendiamo la lista di predizioni sul futuro che abbiamo messo insieme con l’esercizio precedente, e proviamo a chiederci quali predizioni vogliamo si realizzino e quali no, cioè interroghiamoci su come possiamo essere parte del cambiamento, magari con l’aiuto di Sdegno e Coraggio, che Sant’Agostino poneva come figli della stessa Speranza. 
  • Stiamo trasformando una lista di “considerazioni sul futuro” in una lista di obiettivi. 
  • Perché un obiettivo sia tale e non solo un desiderio, dovremo metterlo a fuoco: cosa è necessario fare per realizzare quell’obiettivo? Proviamo a scrivere o a discutere insieme, scegliendone uno o più di uno a seconda del gruppo e del tempo che abbiamo.
  • Non abbiate paura della discussione: obiettivi, timori e speranze emergono sempre all’altezza di chi li propone. Vale comunque la pena parlare di futuro sia con i piccolissimi che con i più grandi.
  • Alcuni obiettivi sono più difficili e richiedono un’azione collettiva: cosa possiamo fare per aiutare in prima persona queste azioni collettive? Per esempio: per contrastare il cambiamento climatico possiamo già cambiare alcuni nostri comportamenti, e al tempo stesso dovremo sensibilizzare i governi e i nostri concittadini…
  • Cerchiamo di rendere il più dettagliato possibile almeno un obiettivo: quali sotto-obiettivi comporta? Quali sono le mete da raggiungere per prime?
  • Il futuro inizia sempre tra un attimo: e dipende comunque da noi, è questo il senso più bello della parola speranza.

I giusti di Borges

  • Sta girando per l’Italia da qualche anno un’esperienza che reputo meravigliosa per parlare del valore collettivo e non violento della speranza: è La carovana dei pacifici, lanciata da Roberto Papetti e raccolta da Luciana Bertinato ed Emanuela Bussolati. Il percorso sta andando avanti in molte direzioni: potete seguirlo sul sito curato da Giovanna Sala.
  • I pacifici parlano di tutto ciò che facciamo anche per costruire speranza: ci sono delle cose che riteniamo giuste, e che facciamo senza aspettarci nulla in cambio. 
  • Molti degli incontri dei pacifici si concludono con la costruzione di una serie di piccoli omini che si mettono in cammino. E cominciano con la poesia I giusti di Jorge Luis Borges, che vi presentiamo qui nella traduzione di Domenico Porzio.
  • I giusti: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. Chi è contento che sulla terra esista la musica. Chi scopre con piacere una etimologia. Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi. Il ceramista che intuisce un colore e una forma. Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace. Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto. Chi accarezza un animale addormentato. Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson. Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”
  • Aggiungiamo altre righe alla poesia, dicendo chi, secondo noi, magari senza saperlo, sta salvando il mondo. Per esempio: “Chi sa coltivare il silenzio. Chi fa crescere nel cuore un’emozione. Chi sorride senza uno scopo.”
  • La speranza è anche questo: sapere che ciò che facciamo ha valore, e che salverà il mondo.

Qui è possibile trovare altre attività pratiche da fare in classe.

Foto di copertina by Courtney Hedger Jr on Unsplash