Valerio Camporesi, insegnante di Storia e Filosofia, ci racconta la tecnica della “messa in scena”che utilizza per interessare i suoi studenti alla Storia.

Chi insegna Storia si trova di fronte ad un interrogativo che vale per tutte le discipline ma che forse per questa vale ancora di più: come farò ad interessare i miei studenti alla materia? Molto forte è il rischio che il passato di cui si vuole narrare non comunichi più col presente, almeno col loro presente fatto di video e messaggi sulle chat e i canali più vari oltreché – ovviamente – di bisogni, desideri, abitudini e quotidianità che sembrano irrimediabilmente lontani da quelli dei quali l’insegnante è tenuto a parlare.

Facce stanche, annoiate, poco interessate, che tutto vorrebbero fare piuttosto che ascoltare le varie fasi della Rivoluzione francese o le famose guerre d’Italia, quelle del ”Francia o Spagna purché se magna” (questa parola, magna, ha sempre avuto almeno per i miei studenti un gran potere di risvegliare l’attenzione!).

Eppure, come ricordava recentemente in televisione Franco Cardini, chi svolge il difficile mestiere dell’insegnante di Storia è chiamato in primo luogo a stabilire un ponte tra il passato e il presente onde evitare – aggiungo io – il fallimento della propria missione, che è quella di trasmettere dei saperi ma anche quella di stimolare interessi e curiosità.

Che fare, dunque, per raggiungere l’obiettivo e – tra l’altro – evitare la diffusione di contagiosi e pericolosissimi sbadigli nell’ora di lezione?

Da sempre refrattario alle indicazioni dei più vari esperti di pedagogia (spesso generiche e standardizzate), ho attinto dal mio bagaglio individuale un metodo che non è un metodo, ma solo il vecchio gioco del teatro applicato però alla Storia, ovvero la messa in scena in classe di brevi rappresentazioni degli eventi oggetto di studio (naturalmente con la regia del sottoscritto).

È difficile descrivere l’entusiasmo e la gioia che talora affiora negli occhi degli alunni.

Per chi fa questo lavoro con passione non c’è – io credo – ricompensa più grande, ed a molti sarà capitato.

A me è successo appunto (anche se non solo) ogni volta in cui, finita la spiegazione, ho pronunciato la fatidica frase: ”Bene, e adesso facciamo la scenetta”.

Risate, certo, e voglia di sano divertimento – tutto oro per chi come me è convinto che la scuola debba essere seria ma non seriosa, che anche tra le mura degli edifici scolastici possano abitare la gioia e la spensieratezza.

Ma forse non solo: che si trattasse di finire ghigliottinato ai tempi di Robespierre o di essere ripudiato come Ermengarda, è stato almeno fin qui tutto un susseguirsi di mani alzate e ”io, io!”, come se in fondo ci fosse un desiderio reale di entrare in contatto con quelle persone, con quei vissuti così lontani ma che il teatro, questo gioco vecchio quasi come il mondo, ha il potere di far sentire così vicini.

E anche se solo per un attimo, sentirsi Vittorio Emanuele II o Garibaldi può forse gettare un seme, un ricordo, e una consapevolezza: che in fondo le persone di ieri non sono così diverse da quelle di oggi, che il nostro mondo fatto di partite, chat e playstation può forse non essere così irrimediabilmente isolato da tutto quello che lo ha preceduto perché in fondo di esseri umani sempre si tratta.

Sulla teatralizzazione a scuola ne avevamo già parlato qui!